«La ciclofficina ha semplicemente la pretesa di trasmettere la passione per la bicicletta. Non è altro che un progetto per insegnare alle persone come riparare o costruirsi da sé una bicicletta dal riciclaggio», afferma Piero Di Silvestro, uno dei meccanici delle Ciclofficine Popolari Romane. Un luogo aperto a tutti, dove è possibile riparare, recuperare, riciclare biciclette ed immaginarne di nuove, costruendole da soli o con l’aiuto dei meccanici dell’officina; un luogo dove questa attività è il punto di partenza di un percorso di riflessione sul consumo e sugli stili di vita, sulla mobilità e sui trasporti. Ce ne sono tante a Roma, tantissime in Italia, tutte o quasi sorte da esperienze di occupazione di luoghi in disuso e abbandonati, oppure sottoforma di associazioni e cooperative sociali, con l’obiettivo di aiutare anche le persone in difficoltà. E qui non si compra e non si vende nulla. Non c’è scopo di lucro. Tutto è basato sulla condivisione, sulla libera offerta, sul riciclaggio di vecchie biciclette o di parti di esse, sul volontariato e, come detto, sulla passione verso questo splendido mezzo di trasporto. «La bicicletta è un mezzo povero, economico – continua Di Silvestro – che ti può portare veramente lontano».
E lontano sono ormai arrivate queste botteghe della bici, tanto da essere oggetto di documentari, come Contromano, di Stefano Gabbiani, prodotto da Lacumbia Film, che narra la storia di due piccole ciclofficine aperte di recente a Torino, la Bikezone Vanchiglia e l’Officina Bici, e delle persone che vi lavorano all’interno. Persone che tramite la bicicletta vivono la concreta possibilità di reinventarsi e che, pur provenendo da storie e mondi molto diversi tra loro, sono testimoni di un riscatto personale e professionale ancora oggi possibile. Ma da dove nascono le ciclofficine? Siamo agli inizi degli anni 2000, un gruppo di ciclisti decide di radunarsi davanti al centro sociale “Deposito Bulk” a Milano, sulla scia del movimento denominato “Critical Mass”, nato a San Francisco dieci anni prima. Un raduno spontaneo di ciclisti che, al grido di “Noi non blocchiamo il traffico. Noi siamo il traffico”, invadono le strade normalmente usate dalle automobili, con l’obiettivo di accendere i riflettori sul deteriorarsi della qualità della vita, a partire dai livelli di inquinamento dell’aria e acustico dovuti alle automobili, fino ad arrivare, come da noi in Italia, alla denuncia della mancanza di piste ciclabili.
Da Milano a Roma il passo è breve. La capitale diventa nel corso degli anni un terreno fertile per lo sviluppo della critical mass, con l’appuntamento fisso dell’ultimo venerdì del mese, e soprattutto delle ciclofficine. Tante, oramai in Italia. Ognuna con le sue storie. C’è la Ciclofficina Centrale a Roma, che nasce in uno spazio sotto al mercato rionale del quartiere Monti, dopo la chiusura del centro sociale Angelo Mai. Aperti tutti i giorni dalle 20 alle 23, pagano un affitto simbolico al Comune, e si nutrono di sottoscrizioni volontarie e di donazioni di attrezzi. La riparazione però non è tutto: «Organizziamo anche corsi di ciclomeccanica destinati a persone in difficoltà, come pazienti dell’Asl, ex tossicodipendenti e senza fissa dimora – afferma Giuseppe Fiore – Non solo, in accordo con la società di servizi AMA, la ciclofficina provvede a recuperare biciclette e pezzi di ricambio partecipando alla raccolta mensile dei rifiuti ingombranti o andando direttamente a casa dei cittadini». C’è la Ciclofficina popolare Ex Lavanderia, che nasce da uno dei progetti dell’Associazione Ex Lavanderia, che per anni si è battuta per garantire l'uso pubblico e culturale dell’Ex Manicomio Psichiatrico S. Maria della Pietà a Roma. Lì sono aperti solo nel weekend, ma ciò non toglie di organizzare corsi di saldobrasatura e la famosa “Pedalata Patologica”, a sostegno del Teatro Patologico, oggi a rischio chiusura.
C’è il Ciclospazio di Bari, che offre il servizio di marcatura bici con una targa indelebile micropunzonata sul telaio, creando così l’Anagrafe della Bici contro i furti. C’è la ValdarnoInBici, premiata dal Consiglio Comunale con una somma di 400 euro, per il progetto “Laboratori di ciclofficina e banca della bici”, con la realizzazione di corsi di cicloriparazione e ciclo manutenzione. O l’ultima nata in Italia, la Ciclofficina Raggi Resistenti a Reggio Emilia, che si sviluppa all'interno di uno degli stabili occupati da alcuni migranti e profughi rimasti senza alloggio e che, costretti a dormire in strada, si sono riappropriati di un diritto fondamentale, il diritto all'abitare, occupando stabili lasciati all'abbandono.
E poi ci sono gli slogan che le contraddistinguono. Da quello più semplice del Ciclotrofio di Alghero, “Se hai una bici da buttare, protacela…”, a quello più filosofico delle Ciclofficine Popolari di Roma, “Una macchia di grasso pulisce l’aria delle nostre città, un movimento centrale scorre a ruota libera nelle nostre strade”, a quello latinosinistroide della Popolare Ampio Raggio di Bologna, “El socialismo puede llegar solo en bicicleta”, fino a quello naïf della Ciclofficina Centrale sempre a Roma, autodefinitasi “Ciclofficina di Irriverenti Ciclisti Liberi, Offriamo Fantastiche Feste, Iniziative Cicloattive, Inventiva Naturale e Assistenza”. Non sempre però son tutte rose e fiori. Alcune ciclofficine chiudono, per ovvi motivi, altre aprono, altre ancora si dividono, aumentando così il numero e i servizi offerti. Ma il filo conduttore resta lei, la bicicletta. Con la sua bellezza e il suo significato. Perché la bici è romantica. Perché la bici è lenta. E ti porta ovunque, senza usare petrolio, senza creare traffico, senza produrre inquinamento.
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